Magazine gennaio 1998
Trimestrale di informazione e di discussione culturale a cura dell'Archeoclub di Roma
Da Minerva a San Giuseppe
Gran parte delle feste del mese di marzo, nell'antica Roma, era direttamente o indirettamente dedicata al dio Marte dal quale il mese traeva il suo nome. Tuttavia, marzo era pure considerato come sotto una sorta di patronato di Minerva che in quel mese sarebbe nata uscendo - com'è noto - tutta armata dal cervello di Giove. La dea che nella triade capitolina era onorata con solenne culto pubblico come tutelatrice e rappresentante dello Stato, durante il "suo" mese era considerata al di fuori di qualsiasi connotazione di carattere militare, ma piuttosto come portatrice di saggezza e di buon consiglio, protettrice delle arti e dei mestieri e di ogni opera dell'ingegno. Ovidio raccomandava ai giovani di rivolgersi ad essa per assicurarsene la protezione nella formazione culturale e professionale.
Il giorno proprio della festa era il 14° prima delle calende di aprile, ossia il 19. Nei calendari esso era indicato col nome di quinquatrus, secondo Varrone perche era il quinto giorno dopo le Idi; secondo Ovidio perchè le cerimonie duravano cinque giorni, da uno solo che era all'inizio (ma pare che gli altri furono aggiunti quando, oltre alle cerimonie vere e proprie, s'introdusse l'uso dei ludi scaenici e di quelli venatorii: spettacoli teatrali e rappresentazioni di cacce). La spiegazione piu verosimile sembra quella varroniana trattandosi effettivamente del quinto giorno dopo le Idi (secondo il sistema di contare dei Romani che includeva anche il termine di partenza) coincidente con il plenilunio e dunque quinto giorno "buio" o "nero" (ater, donde quinq(ue)-ater, quinquatrus) in cui la luna calante rendeva sempre più oscura la notte. Se tale spiegazione e quella giusta, si potrebbe allora anche pensare che lo strano nome conservasse il ricordo di un antichissimo uso d'indicare i giorni del mese con una numerazione progressiva, a partire da determinati giorni fissi, e non regressiva (come poi fu fatto) in riferimento a un giorno ancora da venire: ciò quando il calendario era di esclusiva"competenza" dei pontefici che lo comunicavano al popolo mese per mese. Mentre infatti dalle Calende alle Idi (cioè dal primo al 13, o al 15) si potevano contare i giorni che correvano tra la comparsa in cielo della prima falce lunare e il plenilunio, passato questo era impossibile sapere con esattezza quando sarebbero arrivare le Calende, cioè l'inizio del mese successivo. Cosa che fu invece alla portata di tutti dopo che il sistema calenderiale, basato in parte sull'anno lunare, fu reso di pubblico dominio.
Il 19 marzo veniva celebrata anche la ricorrenza anniversaria della dedica del tempio costruito sull'Aventino in onore di Minerva. Esso si trovava nella zona oggi compresa tra le chiese di Sant'Anselmo, Santa Prisca e Santa Sabina e in un frammento della"pianta marmorea severiana" e rappresentato come un periptero esastilo. Nel giorno della festa vi convenivano scrittori e poeti per cimentarsi in gare letterarie, artisti e artigiani che del resto vi avevano la sede delle rispettive corporazioni; praticamente, tutti coloro che esercitavano un'arte qualsiasi. Quel giorno perciò era detto "degli artigiani" (dies artificum) e ogni categoria lo celebrava alla propria maniera. Sappiamo ad esempio che i precettori e i maestri di scuola venivano omaggiati dai loro allievi di un dono che era chiamato "minervale". Tutti comunque sospendevano le proprie attività e, assolti gli obblighi religiosi, si dedicavano a ogni genere di giochi. Svetonio riporta il brano d'una lettera di Augusto che scriveva a Tiberio: ""... abbiamo trascorso abbastanza allegramente le quinquatrie; abbiamo infatti giocato tutto il giorno, facendo surriscaldare il "tavoliere" . . ."".
A partire dal 310 a.C. poi una sorta di "festa nella festa" era quella dei tibicines, i suonatori di flauto (lo strumento che si voleva inventato da Minerva!) i quali, vestiti con lunghi abiti femminili e mascherati, per tre giorni di seguito se n'andavano in giro per la città suonando, cantando e ballando, con "ampia licenza", com'era stato loro concesso di fare per indurli a recedere da uno "sciopero": quello che essi avevano indetto riguardo le loro prestazioni musicali (indispensabili per la regolarità e la validità dei riti religiosi) quando furono esclusi dai banchetti sacri (le epulae) presso il tempio di Giove Capitolino, dai censori Appio Claudio e Caio Plauzio.
Secondo alcune versioni pare che nel "giorno di Minerva" si ripetessero pure le corse di cavalli (e forse di carri) dette Equirria, che la tradizione voleva istituite da Romolo in onore del padre Marte. Esse erano perciò celebrate nel Campo Marzio (dove esisteva un antichissimo spazio attrezzato, simile a un circo, detto Trigarium) o, in caso d'inagibilità di questo per allagamento causato dalle inondazioni del Tevere, in un luogo del Celio detto Campus Martialis. L'evidente significato guerresco valeva come "recupero" delle prerogative belliche del dio nel mese in cui finiva l'inverno e, col ritorno della primavera, si riapriva la stagione delle campagne militari.
Ma, per tornare a Minerva e al dies artificum, e appena il caso di sottolineare come la Chiesa cristiana abbia stabilito proprio al 19 di marzo la festa liturgica di San Giuseppe, falegname, patrono degli artigiani.